Nel corso dei secoli l’uomo occidentale ha o elaborato delle riflessioni riguardo la morte, l’evento più importante e ineluttabile, ma meno compreso, della nostra esistenza, oppure l’ha ignorata del tutto.

Nell’anno 138 d.C., il grande imperatore romano Adriano giaceva morente in una villa affacciata sul Golfo di Napoli. Per molti anni era stato il potente sovrano del mondo occidentale e aveva governato un impero che si estendeva per migliaia di chilometri. Nel corso della sua movimentata vita di soldato e statista, aveva conosciuto diversi popoli, molte usanze e molte tradizioni religiose. Da queste persone aveva forse sentito varie idee sulla prova suprema che ora stava affrontando mentre guardava il mare.

Naturalmente conosceva i culti di Roma e della Grecia e anche le speculazioni metafisiche dei filosofi greci. Aveva visto che la religione del contadino mediterraneo evitava quelle speculazioni in favore del più famigliare numen dei campi e del focolare. Conosceva gli dei selvaggi delle tribù germaniche a nord e ad oriente quelli del mondo civilizzato. Aveva dovuto affrontare e risolvere con la forza delle tensioni con gli ebrei, un popolo che a differenza degli altri, era fieramente leale ad un Dio geloso. Doveva anche aver notato la diffusione nel suo impero di quella nuova setta cristiana, i cui seguaci adoravano un falegname della Galilea che era stato giustiziato un secolo prima da un procuratore romano.

Ora però tutte queste informazioni non erano di conforto per Adriano, che  giaceva sofferente e lottava con i suoi pensieri. Poco prima che la vita gli scivolasse via, prese la sua penna e scrisse un breve poema che si trova inciso su una tavoletta in un antico mausoleo di Roma, dove una volta si trovava l’urna con le sue ceneri:

Animula vagula blandula,

Hospes comeque corporis,

Quae nunc abibis in loca

Pallidula, rigida, nudula

Nec ut soles dabis iocos!

Questo celebre poemetto, che poi divenne noto come “L’invocazione di Adriano alla sua anima”, è stato tradotto centinaia di volte. Una sua versione è del famoso poeta romantico Byron:

Oh anima gentile, fugace e fluttuante,

amica e compagna di questa forma terrea!

Verso quale regione sconosciuta,

vuoi ora spiccare il tuo lontano volo?

Non più con spensierata gaiezza,

ma pallida, triste e desolata.

Con questo lugubre lamento per la sua mortalità, Adriano aveva espresso il timore e i dubbi di ogni uomo. Potremmo vivere fino alla vecchiaia, ma tutti noi dobbiamo avere a che fare con la morte, prima quella dei nostri amici e parenti, poi quando arriverà per noi. Possiamo aspettarci di soffrire per i nostri cari, di sopportare la tragedia e il vuoto della perdita, e di essere progressivamente indeboliti dall’assalto della vecchiaia e dall’infermità, che stanno preparando il terreno per la nostra fine ultima.

Tutte queste crisi sollevano delle domande non solo teoriche, ma urgentemente pratiche e personali. La mia esistenza sta arrivando ad una fine priva di significato? Cosa ne sarà della mia coscienza, con la quale vivo tutte le mie speranze, le mie gioie e le mie paure? Anche se nella mia mente posso esplorare l’universo alla ricerca di valori e verità che trascendono la materia, dopo tutto io non sarei forse altro che un aggregato temporaneo di elementi materiali? Cosa succede in quel misterioso momento in cui la vita cessa? Tutte queste domande sorgono naturalmente nella mente di una persona riflessiva che sta affrontando la morte. Riflettono un’istintiva ricerca della sopravvivenza, l’intuizione che forse esiste una componente spirituale la cui natura è estranea al guscio in decomposizione in cui stiamo vivendo.

C’è qualcosa di incredibilmente terrificante nel pensiero che l’io su cui poggia la mia esperienza non esisterà più. Il sole sorgerà, la mia famiglia avrà nuovi amici e penserà a nuovi progetti di divertimento, la vita andrà avanti inesorabilmente, ma io non ci sarò più. Di fronte a questa incombente certezza, tutti gli sforzi di una vita appaiono inutili.

Consideriamo una giovane madre che ha dolorosamente portato la vita in questo mondo pieno di difficoltà. Si prende amorevolmente cura di suo figlio e lo protegge da tanti pericoli. Lo nutre, lo veste e lo protegge, lo vaccina contro le malattie, gli insegna ad attraversare la strada e a non parlare con degli estranei. Ma anche così, la fragile protezione della madre può facilmente e immediatamente venire distrutta. Forse un incidente automobilistico, quando la morte arriva con rumore stridente e un crudele impatto riduce a un nulla tutte quelle amorevoli cure. I tentativi della povera madre di ritardare la morte si sono rivelati per quelli che sono e in un attimo sono stati resi privi di senso.

La morte ci esclude da una serie di relazioni consolanti che in qualche imperscrutabile maniera, ci danno una sensazione di protezione nei confronti dell’inevitabile. Rinchiusi nei pensieri di questo mondo, nelle nostre infinite aspirazioni di piacere, non siamo mai pronti a ricevere  l’indesiderata intrusa. Tocca la nostra spalla quando stiamo pianificando le nostre prossime vacanze estive o imbiancando la cucina. Ignora le nostre preghiere di terminare le nostre imprese non ancora completate. È sorda alla nostra rabbia per l’incomprensibile ingiustizia che pensiamo ci sia capitata. Non tiene conto dei presunti progressi della scienza. Ci porta da un luogo di apparente sicurezza ad un reame sconosciuto, con la prospettiva di entrare in quella che, come ha notato il lamentoso Adriano, ci lascia “pallidi, tristi e desolati”.

La morte rimane la cosa più difficile da comprendere e il più grande ostacolo ai piaceri della vita. Tuttavia è notevole il fatto che, nonostante il cosiddetto sviluppo dell’umanità dai tempi di Adriano, siano stati fatti pochi progressi per risolvere questo enigma fondamentale. In effetti, il malinconico agnosticismo mostrato da Adriano è stato generalmente sostituito da una specie di filosofia epicurea, il cui inizio aveva  preceduto Adriano di centinaia di anni. I seguaci del filosofo greco Epicuro deridevano ogni pretesa di immortalità e spesso adornavano le loro tombe con questo audace epitaffio: “Non ero, ero, non sono, non mi interessa.”

Ovviamente per gli epicurei la vita presente è la considerazione più importante. Le inutili speculazioni sull’immortalità non dovrebbero distrarci dall’apprezzare l’unica cosa che possiamo sapere con certezza: che siamo vivi, che esistiamo ora. Quando questa visione prevale sempre di più, arriviamo a credere che il corpo rappresenti la somma totale del nostro essere. La nostra comprensione è che la vita e la coscienza non sono nient’altro che il risultato di complesse interazioni chimiche e respingiamo le aspirazioni metafisiche sull’immortalità come fenomeni biologici aberranti. Una volta liberi dalle superstizioni di tempi meno illuminati, il nostro evoluto intelletto può concentrarsi nell’unica cosa che conta: il raggiungere degli obiettivi materiali.

Queste idee, un tempo tenute in considerazione solo da un numero ristretto di intellettuali, ora sono proprietà comune di tutti. Esse si sono persino infiltrate nelle grandi istituzioni religiose, che ora più che mai stanno unendo le loro forze insieme al gigantesco edificio dell’umanesimo scientifico e liberale. L’umanesimo annuncia spavaldamente la sua capacità di risolvere i problemi dell’uomo e nel frattempo promuove completamente ciò che rappresenta il cuore del problema, l’edonismo. Gli umanisti considerano la domanda di Adriano come una vestigia di miti fantasiosi a cui la razza umana nel passato ha dato troppo facilmente credito. L’ingenua nozione che l’anima in qualche modo esista è irrilevante di fronte alle questioni sociali ed etiche tese al benessere e al progresso dell’uomo.

L’influente scrittore esistenzialista Jean Paul Sartre espresse questo punto di vista da una prospettiva leggermente diversa, con queste parole: “È assurdo che dovremmo nascere, è assurdo che moriremo. La vita, finché dura, è pura e libera da ogni morte, perché posso concepire me stesso solo come vivo. L’uomo è un essere per la vita, non per la morte.”

A questo punto forse protesterete, perché avrete  notato un tono critico nella mia presentazione? State forse pensando: “Bene, cosa c’è di male nel vivere la vita fino in fondo? Questi pensatori hanno offerto un grande servizio all’umanità liberandoci da ossessioni inutili e morbose a cui è impossibile dare una risposta. Ci hanno permesso di concentrarci sui problemi reali che riguardano il qui e ora.”

Certamente, il voler sollevare l’umanità da un peso è un sentimento nobile, ma non si può negare che il più grande problema che dobbiamo affrontare è la morte, che è l’ineluttabile fine di tutte le nostre speranze. L’umanesimo propone di risolvere tutti i nostri problemi affidandosi totalmente alle capacità dell’uomo, ma la sua risposta al grandissimo problema della morte è ignorarla, stravolgendone il significato con una  frenetica ricerca del piacere.

I risultati diretti dell’indifferenza nei confronti della morte sono stati il trionfo della banalità e la virtuale scomparsa della morte nelle nebbie degli eufemismi. Il poeta belga Maurice Maeterlinck si lamentava così: “Portiamo la morte nelle mani buie del nostro istinto, e non gli concediamo nemmeno un attimo della nostra intelligenza.” Nessuno osa pronunciare il suo nome. Si tratta di “una lunga malattia”, di “tragiche circostanze” e alla fine ci limitiamo a “trapassare”. Le continue intrusioni della morte nella nostra quieta esistenza sono state viste quasi come una gaffe sociale da un altro poeta, Yeats, che la definisce “la scortesia della morte”. . “Ma non importa quali eleganti eufemismi utilizziamo, l’orribile realtà rimane.”

Leone Tolstoy ha esaminato la psicologia dell’uomo morente nel suo capolavoro, ‘La morte di Ivan Ilych’. Ivan Ilych, un giudice che ha vissuto la sua vita con tutti gli onori dovuti al suo stato sociale, si ammala. Un dolore acuto lo consuma dall’interno, un dolore diverso da qualsiasi altro che aveva mai provato prima, in quanto non risponde al trattamento medico. Invece di svanire dopo i soliti pochi giorni, rimane e cresce fino al punto in cui domina la sua coscienza. E non è più una questione di curare i reni o gli intestini malati; è una questione di vita o di morte. La sua vita o morte.

Per i famigliari di Ivan, la sua malattia terminale è un’interruzione imbarazzante del corso ordinario della loro esistenza. La loro reazione all’inconveniente della morte è semplicemente fingere che non stia avvenendo, e così continuano a chiacchierare educatamente con Ivan come se nulla stesse accadendo. Nessuno è disposto a riconoscere che Ivan sta subendo l’evento più importante e traumatico della sua vita. Persino i suoi medici fanno parte di quella tranquilla cospirazione, offrendo speranza quando non esiste speranza. I suoi amici gli fanno delle visite di cortesia e lo incoraggiano, ma segretamente sono sollevati dal fatto che non sono loro che stanno morendo e si sorprendono per le prospettive di promozione che la morte di Ivan aprirà loro. Ivan, tuttavia, affronta la realtà da solo, e trova sempre meno significato nelle fastidiose esigenze di correttezza che fino a quel momento avevano governato la sua vita. In definitiva, è l’inutilità di una vita che non ha saputo affrontare il terrore supremo della morte tanto quanto il terrore stesso di essa che spaventa Ivan Ilych.

La medicina moderna ha aggiunto fatuità alla nostra filosofia della morte. Ha spostato la morte dalla camera da letto alla stanza dell’ospedale. Là, già programmata dal linguaggio dell’incoscienza, la morte è avvolta nei fogli bianchi dei tabù clinici. I medici tentano furiosamente di farla scomparire, come se attaccassero una macchia ostinata con un potente detergente, e quando tutti i tentativi falliscono, la morte viene consegnata all’anonimato statistico.

Questo tipo di oscurantismo offre una soluzione al problema della morte? Certamente non fu così per Ivan Ilych, e sospetto che non lo possa fare per nessun altro. Per Ivan, la morte era una suprema e impenetrabile minaccia. Non poteva, parafrasando Dylan Thomas, un altro poeta, avviarsi dolcemente verso quella notte. Ma lui si è infuriato, oh come si è infuriato, contro il morire della luce.

Perché dovremmo impazzire per la dissoluzione del corpo? Anche se fossimo solo un conglomerato di elementi materiali, perché dovremmo essere terrorizzati dalla prospettiva di una sua trasformazione, o addirittura dell’annientamento della nostra esistenza?

Alcuni anni fa lavoravo come ricercatore chimico. Spesso trasformavo i composti chimici, combinandoli gli uni agli altri per formare delle sostanze completamente nuove. Ma non li ho mai sentiti lamentarsi, e ovviamente è assurdo pensare che potessero farlo. Ma allora non è assurdo pensare che questi stessi composti, quando sono organizzati in combinazioni più complesse chiamate corpi umani, abbiano in qualche modo sviluppato la facoltà di fare proprio questo? In quale fase queste sostanze chimiche inerti e insensibili prendono vita, sviluppano coscienza della loro esistenza e con questa coscienza ottengono la capacità di piangere angosciati nell’imminenza del loro annientamento?

Nonostante i loro grandi sforzi, chi è all’avanguardia nella rivoluzione scientifica non può dare una risposta soddisfacente a questa domanda. In effetti, non può offrire nessuna spiegazione plausibile per fenomeni come la coscienza, e la vita stessa.

Lo scienziato vincitore del premio Nobel, Albert Szent-gyorgi ha scritto: “Nella mia ricerca del segreto della vita, sono finito con gli atomi e gli elettroni, che non hanno assolutamente vita. Da qualche parte lungo il cammino, la vita mi è scivolata via tra le dita.”

Lasciando da parte i tentativi occidentali di spiegare la vita e la morte, rivolgiamo la nostra attenzione altrove. Mentre Adriano stava meditando sui misteri del suo destino eterno, a sud-est del suo impero fioriva una civiltà che dal lontano passato viveva con una comprensione della morte molto prima di Adriano e di noi.

Probabilmente Adriano aveva sentito qualcosa della religione indiana, degli asceti, del misticismo e dei praticanti della via della devozione, ma a quanto pare non era mai entrato in contatto con la Bhagavad-gita, il grande trattato filosofico che per migliaia di anni ha plasmato profondamente il pensiero e il modo di vivere indiano.

La Bhagavad-gita non offre vaghe speculazioni sulla morte. Piuttosto ci presenta le parole di Dio, e quindi presenta la spiegazione più convincente di quella importantissima esperienza umana. Nella Bhagavad-gita, Sri Krishna, il Signore Supremo, spiega che il principio che da vita al corpo non è l’interazione casuale di sostanze chimiche, ma una particella spirituale eterna, l’anima.

Quindi in un attimo viene spiegato il mistero del desiderio di immortalità. Noi, le anime, siamo eterni e siamo, con parole della Bhagavad-gita, “…non nati e immortali. Non moriamo quando il corpo muore.”

Questo mondo di nascita fisica e di morte, in cui il piacere è alla fine annegato nella bile dell’impermanenza, è estraneo alla nostra natura. Il nostro grande errore arriva quando crediamo che la coscienza e la vita vengano dalla materia e che noi siamo corpi materiali temporanei. Crediamo a questo equivoco da tempo immemorabile e quindi la consapevolezza della nostra vera natura spirituale è ora solo una percezione vaga e quasi dimenticata.

Tutto quello che ci rimane è la sensazione della futilità del transitorio e un voler afferrare l’infinito.

Se non c’è mai stato un tempo in cui non esistevamo, da dove veniamo? E se non moriamo mai, dove andremo dopo che il corpo si disintegra? La Bhagavad-gita spiega che l’anima esiste eternamente come parte integrante di Dio, l’anima suprema, proprio come i raggi del sole esistono eternamente con il sole. La nostra posizione costituzionale è quella di avere una eterna relazione con Dio, una relazione che per sua natura è piena di gioia e di felicità.

Da parte nostra, in effetti non è un servire da schiavi e senza sentimenti, ma è una piena e personale reciprocazione con la fonte di ogni piacere. Ma per invidia abbiamo rigettato la nostra posizione subordinata e siamo nati nel mondo della materia, dimenticando la nostra natura eterna e spirituale.

Il mondo materiale offre alle anime ribelli l’opportunità di poter manifestare i loro desideri indipendenti. Quindi una caratteristica importante della mentalità materiale è il desiderio di dominare il proprio ambiente. Ma questi piani falliscono perché rimaniamo sempre subordinati. Se non stiamo servendo Dio con amore, dobbiamo diventare schiavi della natura materiale.

E la morte è la prova definitiva di questo fatto. Qualsiasi relazione o progetto che facciamo, tutto termina con la morte.

La Bhagavad-gita spiega che al momento della morte, l’anima che desidera i piaceri materiali, rinasce in un altro corpo. Lì subisce i risultati delle azioni che ha compiuto nelle sue vite precedenti ed è nuovamente soggetta alla vecchiaia, alla malattia e alla morte. La Gita spiega che è la coscienza dell’individuo al momento della morte che determina la natura del suo prossimo corpo. I pensieri o i desideri che occupano l’attenzione in quel momento spingono l’anima verso un altro corpo.

Questa penosa ruota della metempsicosi può essere fermata solo dall’assidua coltivazione della coscienza di Dio. La Bhagavad-gita spiega il metodo con il quale può essere raggiunta questa consapevolezza: seguendo la semplice e sublime via del bhakti-yoga, o servizio di devozione a Dio. Il bhakti-yoga ci consente di dedicarci a questo purificante servizio a Dio in modo che l’atteggiamento di servizio, affine alla nostra coscienza originale, si consolidi saldamente. Con questa consapevolezza possiamo percepire direttamente la verità delle affermazioni della Bhagavad-gita riguardo la nostra vera natura, e così potremo affrontare la morte pensando completamente a Dio e non a pensieri di questo mondo. Otterremo così la liberazione dal ciclo di sofferenze e di paure ed entreremo nell’atmosfera eterna che è la nostra situazione naturale.

Quindi la nostra attitudine riguardo il problema della morte ha delle implicazioni dirette sul nostro modo di vivere. Capire il mistero della morte non è un tema affascinante ma inutile e regressivo; è invece una funzione naturale dell’intelligenza umana e quindi non può essere negata. È veramente una filosofia che migliora la vita perché ci guida a una vita concentrata su Dio che viviamo ora ora e che ci porta alla completa liberazione. In effetti, il tema della morte e l’ignoranza che lo circonda sono delle grandi tragedie perché ci impediscono di capire il fatto più certo della nostra esistenza. La morte non dovrebbe essere separata dalla vita perché non può esserlo. Non è mai solo una questione di morte; è sempre una questione di vita e di morte.

Non possiamo fingere di comprendere la vita o di vivere bene la nostra vita se ignoriamo il fattore più certo della vita. Dovremmo invece renderci conto che la comprensione della morte è la chiave che apre la porta al mistero della vita. Sia che la nostra vita sia stata memorabile, come quella di Adriano, o apparentemente banale, come le vite di quei milioni di persone che incontrano la morte anche mentre stiamo leggendo queste righe, se la viviamo nella consapevolezza spirituale essa avrà un significato infinitamente significativo.

Vicitravirya dasa

(dal sito web Dandavats.com)