Una signora australiana visse per un periodo di tempo con un gruppo di aborigeni. Un giorno mentre mangiavano dei frutti e delle radici nel deserto le chiesero: “Perché voi, bianchi, quando preparate un cibo dovete farlo diventare un miscuglio di tante cose? A noi piace sentire i sapori originali di ogni prodotto della terra, senza mischiarli, confonderli e alterarli con altri.”

Nel film “La Grande Bellezza” in una delle scene finali, il personaggio della “Santa” chiede al protagonista: “Lo sa perché io mangio solo radici…perché le radici sono importanti.”

Tutti noi in Italia, in Occidente in generale ma spesso anche nelle culture orientali e altrove, possiamo constatare che il concetto di povertà viene posto come uno dei fondamenti, una virtù indispensabile nel cammino spirituale di un discepolo iniziato. Io però mi sono sempre chiesto se è veramente questo il concetto più fedele a ciò che i Maestri ci vogliono comunicare.

La povertà è una condizione economico-sociale, a volte siamo ricchi e poi diventiamo poveri, altre volte il contrario ed è capitato che alcuni senza fare sforzi si siano ritrovati ricchi per una vincita al gioco o per un’eredità inaspettata. Tutti noi conosciamo poveri disonesti, criminali, tristi, arrabbiati e ricchi buoni, generosi, onesti, disponibili a migliorarsi come persone ma è altrettanto vero il contrario; possiamo affermare quindi che la povertà è un concetto ancora superficiale, esterno, momentaneo, può essere una bella metafora, un’immagine evocativa ma non tocca in modo completo ed esaustivo ciò che vorremmo definire.

Trovo più efficace allora il termine “semplicità”; la semplicità è un’attitudine del carattere, una qualità. Vuol dire che non ci piace mettere fronzoli e abbellimenti sulle cose che rischierebbero di appesantirle, complicarle, occultando, in parte, ciò che sono. La semplicità è una bella qualità e le persone semplici sono serene, chiare, si accontentano e gioiscono del poco.

Tuttavia credo si possa definire ancora meglio l’importante virtù che sto cercando di descrivere con il termine “essenzialità”. Mi piace molto la parola “essenzialità” perché ci riporta all’essenza, va dritta nelle profondità (o nelle altezze), va per l’appunto alla radice della realtà. Se noi scopriamo l’essenza di qualcosa, o qualcuno, conosceremo nel modo più esatto, completo e vero quella cosa o persona.

Un ricercatore determinato del Vero mira all’Essenza del reale, che poi altro non è che un sinonimo di Anima, va all’Anima delle cose. Solo chi conosce l’Anima conosce le cose per quelle che sono.

Se noi diventiamo essenziali non vuol dire semplicemente che non ameremo lo spreco, le cose complicate, il superfluo, ma molto di più, vuol dire che amiamo e vogliamo solo ciò che di più vero c’è. L’essenza è la radice e in quanto tale è la vita stessa, se noi tagliamo la radice in un albero ciò che resta muore; ma le sole radici danno vita alla pianta.

Prabhupada diceva, elencando i quattro punti fondamentali del Suo movimento, che l’utilità è il principio, intendendo che ciò che è utile a conoscere la nostra Essenza va sempre accettato, ciò che non lo è, anche se per certi aspetti può avere del valore, va messo da parte. Sempre Prabhupada continua affermando che condividere la Conoscenza Sacra con chi la ignora è l’essenza, quindi potremmo dire che ciò che è essenziale è l’Amore, in quanto aiutare gli altri è il più grande atto di Amore. Alla fine questa serie di sillogismi ci porta ad affermare che essere persone “essenziali” significa essere persone che amano o quantomeno che ricercano l’Amore. Tutti ritengono che Dio è Amore e l’Amore è Dio, e quando Dio e la religiosità non sono espressione d’Amore, non sono collegate al vero Dio dell’Essenza, dell’Anima.

Potremmo allora definire uno spiritualista, “essenzialista”, perché vive per scoprire l’essenza, lo Spirito, il Bhraman-Atman upanishadico.

Lo splendido verso (sloka) della Bhagavad-gita 9.2 ci informa che la conoscenza che Krishna sta rivelando è pavitram, la più pura, nel senso di “essenziale”, che attiene alla pura essenza del Reale senza essere mischiata con nulla di diverso che non possieda le qualità sat-cit-ananda. Lo sloka continua affermando che questa conoscenza si auto-rivela, in quanto è pratyaksa avagamam, cioé compresa con l’esperienza diretta, senza mediazioni, lo stesso ricercatore/trice può farne esperienza concretamente. Non è quindi mera conoscenza ma esperienza, realizzazione, epifania, ed è riconoscibile quando in noi si manifesta uno stato coscienziale di gioia suprema (susukam) senza fine (avyayam).

Potremmo concludere dicendo che ogni azione che ci riporta all’essenza, ci rende essenziali, e la riconosceremo perché in noi si manifesterà sempre più una gioia ed un’estasi che ci riportano ad uno stato di consapevolezza di eternità e aggiungerei anche d’amore.

Se siamo quindi attratti da personalità elevate come San Francesco d’Assisi, l’apostolo della povertà, o come il Brahmana Sudama, Haridas Thakur, i sei Goswami di Vrindavana, che fecero della povertà un voto e uno stile di vita, credo dovremmo ricordarci che il loro scopo è di riportarci all’essenza, chi è essenziale è più che povero. Buon viaggio!

Umberto Petrosino (Uddhava das)